L’industria musicale è in continua trasformazione, e oggi più che mai la distribuzione digitale gioca un ruolo centrale. Tuttavia, secondo un recente report pubblicato da IMPALA (l’associazione che rappresenta le etichette indipendenti europee), il mercato dello streaming sta rischiando di consolidarsi in un sistema a due livelli — uno che favorisce chi ha già raggiunto grandi volumi, e un altro che penalizza le produzioni più piccole o indipendenti.
L’analisi parte da un dato di fatto ormai evidente: la maggior parte dei ricavi generati dallo streaming è concentrata in una fascia relativamente ristretta di brani, artisti ed etichette. Gli algoritmi delle piattaforme come Spotify, Apple Music o Amazon Music, orientati a massimizzare il tempo di ascolto e il coinvolgimento, tendono a favorire i contenuti che hanno già alte performance. Di conseguenza, chi parte da una posizione dominante ha più probabilità di mantenere o ampliare il proprio vantaggio, mentre le nuove uscite o i progetti indipendenti devono affrontare una concorrenza algoritmica spesso invisibile ma molto concreta.
Secondo IMPALA, questo fenomeno sta generando una distorsione dell’equità del mercato: più che sulla qualità artistica o sulla varietà dell’offerta, la visibilità e la monetizzazione si basano sulla capacità di ottenere e mantenere numeri elevati fin da subito. Per gli artisti emergenti o per chi lavora con un’estetica fuori dai grandi circuiti commerciali, questo significa avere meno opportunità di essere scoperti e, di conseguenza, anche minori ritorni economici.
Il report avanza anche una critica al modello di ripartizione attualmente adottato dalla maggior parte delle piattaforme, il cosiddetto pro-rata. In questo sistema, tutti i ricavi mensili generati dagli abbonamenti vengono distribuiti in base alla quota totale di stream che un brano ottiene sul totale complessivo della piattaforma. In pratica, chi ottiene milioni di ascolti riceve la parte più grande della torta, anche se l’utente che ha pagato l’abbonamento ha ascoltato solo brani di nicchia.
Alcuni esperti e associazioni di categoria — inclusa la stessa IMPALA — propongono invece un modello user-centric, in cui ogni abbonamento venga distribuito in base a ciò che il singolo utente ha effettivamente ascoltato. Questo modello, più equo dal punto di vista teorico, è stato testato in alcuni mercati (come la Finlandia) ma non è ancora stato adottato su larga scala.
Le implicazioni di questo scenario sono molteplici.
In primo luogo, il rischio di una riduzione della diversità culturale: se le piattaforme tendono a promuovere sempre gli stessi artisti e le stesse sonorità, l’ecosistema musicale perde varietà, e con essa la capacità di innovarsi. In secondo luogo, si crea un sistema in cui l’accesso al mercato è diseguale, ostacolando chi produce musica con risorse limitate, magari legata a una comunità locale, a un genere di nicchia o a un’estetica sperimentale.
Per gli artisti e le etichette indipendenti, diventa quindi fondamentale non solo pubblicare buona musica, ma anche conoscere le dinamiche del mercato digitale e organizzarsi di conseguenza: curare i dati e i metadati, sviluppare strategie promozionali attente, attivare fanbase reali e partecipare a reti e iniziative collettive che pongano attenzione alla sostenibilità dell’intero settore.
La battaglia per un sistema di streaming più equo non è ancora vinta, ma conoscere questi meccanismi è già un primo passo.